Arrivato al termine del suo racconto – prima di cominciare a narrare un’altra storia, rendendo così incompiuta la sua narrazione –, il narratore del film Favolacce (2020) dei Fratelli D’Innocenzo si scusa con gli spettatori-ascoltatori per aver narrato una storia amara. E confessa: è stato lo “sfogo di un annoiato dalla vita” che, rovistando tra l’immondizia, ha trovato il diario in cui una bambina narra la propria vita – o forse la inventa. Su quella vita, il narratore continua a fantasticare, diventando lui stesso la bambina, e racconta la sua favolaccia alla comunità (a venire) degli spettatori. Perché nel rimpasto annoiato di quella storia verosimile giace forse un ammonimento, che ha a che vedere con il nostro stare al mondo, e che dunque travalica anche un’eventuale lettura psicologica della favola filmica. Virtù della noia che conduce alla narrazione: creazione di un vuoto nel tempo, un farsi spazio del tempo; l’origine vorticosa di una metamorfosi.

Nel periodo in cui «l’arte del narrare storie si sta estinguendo», Walter Benjamin rivela che la noia, «culmine della distensione spirituale», è «l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza» (Benjamin 2019, p. 98; Benjamin 2011, p. 33). Nel tempo frenetico del tardo-capitalismo, in cui vige il regime dell’ipertrofia degli istanti di tempo uniformi che inesorabilmente scorrono, è per noi pressoché impossibile fare esperienza, laddove l’esperienza ha forse a che vedere con la creazione del nuovo. Come aprire al nuovo in un tempo soffocato dalle novità, dove tutto è incessantemente, spettacolarmente “come non lo abbiamo mai visto”, ma che pure nulla apporta di differente – di nuovo – al nostro stare al mondo? Quella frenesia del tempo, per dirla con il filosofo Byung-Chul Han, non crea nulla di nuovo, «ma riproduce e accelera ciò che è già disponibile» (Han 2012, p. 32).

Se dunque si avverte come un’esigenza la creazione di uno spazio – di un vuoto – del tempo, di un tempo che fa spazio al nuovo, la narrazione in quanto arte – che deriva dalla possibilità di fare e di scambiare esperienze – può forse sopravvivere. Un invito alla narrazione, in quanto sospensione del tempo frenetico e presa di distanza da un presente avvertito come necessario, è il libro di Brunamaria Dal Lago Veneri e Rosetta Infelise Fronza Colori del pensiero (Edizioni alphabeta Verlag, 2020). A partire da dodici coppie complementari di temi che caratterizzano il nostro modo di abitare il tempo e dunque il mondo (abitare/esserci; visibile/invisibile; destino/carattere; empatia/cura; memoria/oblio; desiderio/sogno; segreti/bugie; luce/ombre; deserto/oasi; bellezza/kitsch; perdonare/perdonarsi; obbedienza/responsabilità), le due autrici creano un percorso di riflessioni filosofiche, di poesie, fiabe, favole, racconti e immagini artistiche che, prendendo le distanze dalla ferocia del tempo lineare, invita a mettere in questione il presente ripensando innanzitutto al proprio passato – «narra un episodio della tua vita» è l’invito delle due autrici. La maniera di quell’invito, però, sembra portare il lettore, che si presume adulto, a un meraviglioso stadio infantile – forse è questo che si percepisce prendendo in mano il libro: tra i grandi caratteri con cui è scritto, tra le linee e i colori delle immagini artistiche, è possibile inventare nuovi racconti con i quali orientarci per abitare altrimenti il mondo.

Che la riflessione intorno al nostro modo di stare al mondo sia orientata, nei Colori del pensiero, da dodici temi concepiti in coppie «non antitetiche ma complementari» (ivi, p. 11), è forse rivelativo di come i termini delle coppie siano intesi alla stregua dei colori, evocati dal titolo del libro. È Goethe – fortemente presente tra le pagine del libro, assieme a Platone, Heidegger e Benjamin – che, nella sua monumentale La teoria dei colori, pone l’attenzione sulla complementarietà dei colori, speculare della coesistenza di ciò che esiste nel mondo. Lungi dall’intendere le cose del mondo come antitetiche o successive le une rispetto alle altre, la simultaneità della visione di un colore, e – immediatamente – la visione della sua controparte, indica l’emergenza contemporanea di ciò che esiste, rivelando così la relazione infinita tra gli esistenti. È solo nel tempo presente dell’emergenza degli esistenti – dei colori – che l’implicazione e la coesistenza delle differenze può apparire.

Nella parte storica della Teoria dei colori, Goethe rivela che nel momento in cui i colori appaiono si pone il problema della loro singola denominazione – come accade, in particolare, nel De coloribus libellus di Antonio Telesio (Goethe 2013, pp. 139-169). L’atto di nominare i colori sembra infatti venire inteso come una sorta di primo motore del mito, che crea il rapporto simbolico dei colori con le “disposizioni d’animo” che caratterizzano il nostro stare al mondo. Il nome dei colori, però, non deriva dal colore in quanto tale, nel suo apparire, ma è posto sempre in relazione all’oggetto in cui appare: «Invero i colori prendono in parte il loro nome dai luoghi […] dai metalli […] dagli animali» (ivi, p. 163). Tale dispersione del nome in un’altrettanta dispersiva rete segnica e poi simbolica fa perdere di vista che così come la poesia è l’atto di tenere insieme il molteplice, così anche la scienza dei colori deve essere intesa come il darsi della «natura intera» – nella riflessione goethiana «la scienza è uscita dalla poesia» (Goethe 2014, p. 5; Goethe 1983, p. 86).

Attraverso la scienza dei colori la natura si dà nella sua interezza – nelle sue molteplici e infinite relazioni – attraverso due sensi: la vista e l’udito. Attraverso la vista e l’udito – sensi indissolubilmente legati –, la natura “parla”: «Così la natura parla agli altri sensi, sensi conosciuti, misconosciuti, ignoti; così parla a se stessa e a noi attraverso mille manifestazioni. Per l’uomo attento essa mai è in alcun suo luogo morta o muta, e alla solida terra ha anzi concesso un confidente» (Goethe 2014, p. 6). Che la natura ci parli ma con una voce silenziosa, e che essa ci inviti, nel suo rivelarsi, a entrare nel respiro del cosmo, è indicativo di come anche le coppie complementari di temi che conducono la riflessione nei Colori del pensiero – e che sono il punto di partenza della narrazione – siano tesi a orientare nuovamente il nostro modo di pensare: non più in una maniera duale e antitetica, bensì complementare e relazionale. Così facendo, il pensiero sembra poter accogliere la sua vocazione poetica: la riconciliazione di ciò che è disperso nel respiro del cosmo; la complicità con le molteplici differenze che rendono possibile il movimento stesso del cosmo.

La complicità con la voce silenziosa della natura: «Non so se la gente sa – si narra in Colori del pensiero, in un breve racconto intitolato “Empatia” – che gli animali e le piante e i sassi mantengono una specie di loro lingua che sta alle lingue degli uomini come un antico dialetto» (Dal Lago Veneri, Infelise Fronza 2020, p. 57). Quell’antico dialetto – qualcosa di molto vicino a quella che Benjamin definisce la «pura lingua», la lingua dei nomi, a cui ogni pensatore deve aspirare – è una condizione impossibile da raggiungere: esso è infatti situato in un tempo che per noi è ormai inaccessibile (Benjamin 2014, p. 47). Tuttavia, se qualcosa come una sopravvivenza di quell’antico dialetto è possibile, lo è solo nel momento in cui un’esperienza in-fantile (letteralmente: propria di chi non parla, di chi ancora non sa o non può parlare) si apre, ossia l’esperienza di trovarsi nel punto in cui emerge (insorge) una nuova parola; nella possibilità di aprire nuovamente a una vita etica.

Anche le immagini artistiche di Colori del pensiero, realizzate con diverse tecniche da Alice Yeoue, Patrizia Plattner, Maurizio Adami e Maria Stoffella, che propongono «forme, colori, rappresentazioni possibili dei temi, catturano lo sguardo e sfidano la mente», sono un ulteriore invito alla narrazione, alla possibilità cioè di accedere a un altro – più vero – uso della parola (Dal Lago Veneri 2020, p. 12). Possiamo sentire il richiamo di Goethe, il quale sembra riecheggiare anche in un saggio benjaminiano del 1917, intitolato Sulla pittura ovvero “Zeichen” e “Mal”, e che può forse illuminare la questione. Benjamin distingue la sfera dello Zeichen – il “segno”, che rimanda alla grafica, alla linea geometrica e alfabetica, che instaura un rapporto dialettico con la superficie su cui viene iscritta – da quella del Mal. Il Mal (che rinvia alla sfera della pittura, Malerei) è la macchia, il colore che «emerge, viene alla luce» – che ha a che vedere con il nostro stare al mondo: «Il venire alla luce è l’atto originario dell’esserci» (ivi, p. 51). Il Mal, dotato di una «magica temporalità» che, nel presente, unisce il passato e il futuro – una sorta di temporalità che anticipa la salvezza –, ha anche un carattere «originario», in quanto dissolve in elementi appunto “originari” ciò che è ritratto («si pensi specialmente al rossore, che compare quando la persona è sconvolta»), che precedono e oltrepassano la consueta capacità di dire (Benjamin 2012, pp. 96-97).

Tuttavia, qualcosa come un’apertura alla parola si trova nell’immagine colorata – nel dipinto –, dal momento che la composizione di ciò che appare permette all’osservatore di accedere alla parola nominando la stessa immagine. Il rapporto tra Mal, nome e parola, però, non è mai identico: esso, infatti, si distingue, secondo Benjamin, a seconda del momento storico in cui l’immagine incontra la parola – in cui, cioè, l’immagine viene nominata. E può anche accadere – come di fatto accade – che ci sia una sovrapproduzione di parole, che allontanano il nome dall’immagine; o una sovrapproduzione di immagini, che smaterializzano la parola – allontanano, cioè, inesorabilmente il nome dalla cosa nominata. Da qui, forse, il nostro contemporaneo disorientamento; da qui, l’ipertrofia dello storytelling e l’agonia – se non la morte – della narrazione in quanto arte.

Dunque: come vivere altrimenti, ossia oltre la dispersione del tempo e del linguaggio, caratterizzata dalla produzione ipertrofica e il consumo bulimico di immagini spettacolari e di altrettante storie spettacolari e non meno invasive? – lo storytelling di cui parla Christian Salmon anche se, anch’esso, è in declino (cfr. Salmon 2008; Salmon 2020). Come svelare le bugie che si celano nella scrittura di quelle storie? Come tentare di raggiungere la verità che può orientare altrimenti il nostro stare al mondo? «L’antidoto alle bugie – secondo le autrici dei Colori del pensiero – risiede nella possibilità di distanza da ciò che costituisce il nostro esserci, nel suo farsi, mettendosi alla ricerca autentica dei dati, oltre ogni rappresentazione» (Dal Lago Veneri, Infelise Fronza 2020, p. 99).

Nell’esercizio della distanza, nel momento orale della narrazione, vediamo – ascoltiamo – la parola che sorge. Una narrazione, dunque, che voglia tendere al raggiungimento del punto d’insorgenza di una parola “dell’infanzia”, che, lungi dall’essere «un giuramento di silenzio e di ineffabilità mistica; è, al contrario, il voto che impegna l’uomo alla parola e alla verità», non può prescindere da una presa di distanza innanzitutto da un tempo avvertito come necessario, e dunque dal modo consueto di abitarlo (Agamben 2001, p. 49). È la speciale giustezza dell’abitare, del vivere e dunque del narrare, che Benjamin vede proprio nel narratore in quanto «figura del giusto che incontra se stesso», ossia: il saggio, il semplice, colui che «sa orientarsi sulla terra senza avere troppo a che fare con essa», colui che prova pietà, complice della natura, di chi non ha parola e di chi non ha un nome (Benjamin 2011, pp. 15-16). Colui che sente che la propria vita è in assonanza con il respiro del cosmo, ma che non lo può in alcun modo spiegare: può solo narrare quell’assonanza, e rimanerne fedele – abitare il mondo all’insegna di quella fedeltà.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 2001.
W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, Einaudi, Torino 2011.
Id., Sulla pittura ovvero “Zeichen” e “Mal”, in Id. Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, Einaudi, Torino 2012.
Id., Il compito del traduttore, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 2014.
Id., Racconti, Einaudi, Torino 2019.
W. Goethe, La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, Guanda, Milano 1983.
Id., La teoria dei colori, il Saggiatore, Milano 2014.
Id., La storia dei colori, Luni Editrice, Milano 2013.
B. Han, La società della stanchezza, nottetempo, Milano 2012.
C. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi Editore, Roma 2008.
Id., Fake. Come la politica mondiale ha divorato sé stessa, Laterza, Bari-Roma 2020.

Brunamaria Dal Lago Veneri, Rosetta Infelise Fronza, Colori del pensiero, Edizioni Alphabeta Verlag, Merano 2020.

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